“Lame taglienti” di Pietro Clemente.
Già dire che esiste il “ballo sardo” presenta qualche problema. Quanti “balli” agiti in Sardegna ci saranno stati? Quanto uguali, quanto diversi a seconda delle zone? Quanto a seconda delle circostanze, a seconda dei ballerini? A dire “ballo sardo” ci aiuta una classificazione linguistica molto usata, o meglio ampiamente rilevata da studiosi che la attribuivano al parlare comune ed esperto: la distinzione tra “balli civili” e “balli sardi”, intendendo per i primi quelli non sardi, ovvero quelli pervenuti nell’isola attraverso i processi della comunicazione e della moda: valzer, polche, mazurche e rock and roll, non sono balli sardi ma “balli civili”. Quando Grazia Deledda riferiva questi modi di dire, non vi comprendeva ben inteso il “rock”, e non so se lo avrebbe considerato “civile”. La Deledda usa anche l’espressione “ballo nazionale sardo”, rivendicativa ma rischiosa perché qualsiasi esperto di ballo sardo (esperto nel senso che lo sa ballare e lo ha visto spesso ballare), le obietterebbe che non ce n’è uno, ma una certa gamma. È meglio dunque dire “balli sardi”.
Anche chi volesse dire che i balli sardi hanno una lunga storia, che vivono immutati dall’età nuragica,o dall’età cartaginese, o da quella romana, o da quella spagnola e via ricordando le dominazioni dell’isola, dovrebbe stare attento alle “lame taglienti” della critica delle fonti: da un bronzetto che mostra qualcosa di simile alle launeddas non è del tutto legittimo affermare la tesi di un ballo sardo originario e nuragico. Il fatto che il Lamarmora racconta di balli, e molti viaggiatori stranieri con lui, non ci autorizza a “vederli” come ci pare attraverso fonti, che descrivono sommariamente e spesso si copiano. Non c’è niente di meno ovvio che le descrizioni che sembrano ovvie. Ci si può poggiare il senso comune ma non l’antropologia: una disciplina scientifica deve essere esigente verso se stessa per non millantare credito.